Intervista a Giacomo Bullo
- Claudia Lena
- 27 mar 2020
- Tempo di lettura: 22 min
Aggiornamento: 2 apr 2020
12 aprile 2019,
ALMA - La Scuola Internazionale di Cucina Italiana, Colorno, PR
Un'esperienza non è sempre qualcosa che si vive all'interno di un ristorante, con le gambe sotto un tavolo e le posate tra le mani. Un'esperienza, vissuta come viaggio nel tempo alla scoperta di luoghi, valori e sapori, può anche celarsi dietro all'incontro di uno chef.
Così, con il pretesto di scrivere l'ultimo capitolo della mia tesi di laurea, il 12 aprile 2019 mi reco presso ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana situata nel cuore di Colorno, in provincia di Parma.
ALMA forma cuochi, pasticceri, sommelier, panificatori, professionisti di sala e menager della ristorazione tramite programmi di alta formazione realizzati con insegnanti di alto livello.
Dopo questa premessa, il mio intento è dunque quello di riportare quello che personalmente ho vissuto come un momento di grande importanza: l'intervista di una figura che, ai miei occhi, rappresenta qualcosa di auspicabile.
L'intervista a un cuoco, al responsabile comunicazione presso ALMA e ad uno scrittore enogastronomico
per la prestiogiosa testata giornalistica Passione Gourmet.
Nelle seguenti righe trascrivo quindi la chiaccherata tra me e Giacomo in una fresca giornata di Aprile.
Vi riporto le miei sensazioni, i suoi primi passi in questo mondo e qualcosa che ricercherete da oggi in poi in tutti i vostri piatti:
il c.d. "gusto casa".
“Allora Giacomo, per rompere il ghiaccio volevo prima farti qualche domanda personale... come ti sei appassionato al mondo della cucina?”
“L'approccio in questo mondo parte da due ambiti. Il primo è quello famigliare, che vede appunto la cucina come momento di convivialità.”
Giacomo dice di essere stato praticamente cresciuto dalla nonna e, proprio guardando lei ha iniziato ad appassionarsi e a chiedersi come venissero fatte le cose che “sapevano tanto di buono”. Parla del c.d. “gusto casa”, definito come una perfetta memoria gustativa che ci porta indietro nel tempo.
“Ciò accade spesso in ristoranti di grande livello”, continua, “in cui da un livello di complessità tecnica molta alta riesci a distillare sapori perfettamente semplici e riconducibili. A me è capitato spesso nella famiglia Alajmo: in diversi loro ristoranti vi è un quasi sovvertimento dell'impiattamento che torna a elementi quasi basici ed elementari per poi sfociare in una complessità di tecniche e poi ritornare di nuovo alla semplicità in cui riesco a decodificare quel gusto, il gusto casa”.
Il secondo ambito con cui si è approcciato alla cucina è stata l'esperienza dello scoutismo, definito da lui “approccio un po' da sfigato”.
È proprio qui che per le prime volte si è trovato a dover far da mangiare ad altri. Si tratta dell' “arte dell'arrangiarsi”, come suggerisco io, che lui collega all'identità della cucina italiana, basata su elementi molto poveri e di riciclo.
“Vedi la sarda in saor a Venezia: diventa l'espressione della scapece in Campagnia o dell'escabeche in Spagna. Si tratta della declinazione dello stesso ingrediente che nasce, in questo caso, dall'esigenza di conservazione del pesce, poiché senza aceto puzzava. Se si vanno ad inserire poi elementi di arricchimento come pinoli e uvetta, allora parliamo di status symbol, ovvero un piatto come espressione di un ceto sociale: i pinoli e l'uvetta come simbolo di ricchezza. È bello vedere come l'Italia riesca dall'esigenza a far nascere le opere stesse. Qualcuno diceva che «L'urgenza dell'opera è la creazione dell'opera stessa», ovvero, da un bisogno sfocia un'espressione artistica vera e propria.”
Come già accennato, da subito ricevo un feedback positivo. È immediato il riferimento di Giacomo al cibo come momento di convivialità e riunione famigliare, aspetto base della mia tesi si laurea.
Successivamente rimango colpita dal gusto casa, ma allo stesso tempo mi ritrovo molto nelle sue parole.
Da queste trabocca infatti un'ampia cultura maturata nel corso dei suoi studi e delle sue esperienze, la quale mi permette di conoscere aspetti di mio particolare interesse e mi porta a porgli ulteriori domande. Ma non faccio in tempo ad aprire bocca che Giacomo sembra aver già capito tutto: è un fiume in piena di informazioni e spesso riesce ad anticiparmi sulle prossime risposte.
Inizia a parlarmi del suo personale percorso di formazione. Giacomo si diploma al Liceo Classico e consegue la laurea in Relazioni Internazionali e Diritti Umani. Successivamente, prima di iscriversi presso il corso di Cucina in ALMA, mi racconta di aver vissuto un anno all'estero. Nelle mie domande successive avrei voluto chiedergli che importanza potesse avere l'esperienza del viaggio in questo settore, ma quello che mi racconta a riguardo penso possa essere sufficiente.
“In questo caso la cucina è un veicolo e strumento di comunicazione e integrazione. Un piatto di pasta al ragù era per me un mezzo per conoscere delle persone”.
Senza vergogna, ammette di aver richiesto più volte la correzione della propria grammatica inglese in cambio di un piatto di pasta,
e aggiunge:
“Il cibo è come una chiave di linguaggio e rappresentazione per il contesto in cui ti trovi”.
L'importanza del viaggio visto come arricchimento personale trova poi riscontro nell'intera intervista, in cui notevoli sono i riferimenti ad esperienze fuori dall'Italia o all'interno del territorio italiano stesso.
Proprio verso la fine, prima di rispondere ad una domanda, Giacomo confessa una delle sue filosofie di vita:
“Prima il ristorante, poi il biglietto.”
E continua: “Tanti viaggi ed itinerari vengono studianti in base a dove vado a mangiare più che al cosa vado a vedere, poi magari mescolo entrambi.”
Successivamente all'esperienza all'estero vissuta post laurea, si sofferma sugli studi conseguiti in ALMA. A proposito, afferma:
“Qui vai ad approfondire e imparare le tecniche e le basi di quello che cucini, anche quelle scientifiche di un certo spessore e di una certa logica. Capisci perchè la carne arrostisce, perchè il pesce deve essere mantenuto ad una certa temperatura piuttosto che fatto bollito o fritto, inizi a capire il «come» senza più indagare tanto la ricetta, di cui siamo colmi. Vai dunque a capire la tecnica e cosa c'è dietro: perchè in Italia al Nord si usa il burro e perchè al Sud si usa l'olio, perchè la cultura del riso è implementata qui e non al Sud, perchè l'Italia è ricca di dolci secchi piuttosto che dolci con la crema o perchè comunque il dolce con la crema arriva dopo..”.
Così mi collego ad uno dei miei prossimi argomenti di interesse:
“E immagino che questa sia anche un'ottima base per esprimere giudizi... ho visto che recensisci per Passione Gourmet!”
“Esatto, è un'ottima base per scrivere. Io scrivo per Passione Gourmet e non nascondo che tante volte per scrivere di cibo bisogna averne fatto, come bisogna averne mangiato tanto. Scrivere di cucina è un bel mondo, un mondo in cui ti puoi esprimere per raccontare. Quando vai a scrivere di cibo..”.
Purtroppo, per qualche motivo, perde il filo del discorso. Eppure la frase con cui riprendere a parlare si riferisce, ancora una volta, a un tema relativo alle mie prossime domande.
“Per quanto la critica oggi si sia sdoganata per questa democratizzazione del giudizio in cui tutti quanti si sentono in dovere e hanno spazio per esprimere un parere, è difficile capire il «come abbiamo mangiato» a causa di fattori che spesso influenzano la nostra chiave di giudizio. Tra questi il fattore economico, di cui l'Italia rispetto ad altri paesi ancora non si è liberata. Il rapporto tra ristorazione gastronomica e popolo italiano infatti è arretrato rispetto a paesi come quello francese o spagnolo. Una famiglia francese almeno una volta all'anno mangia in un ristorante da due o tre stelle Michelin, mentre una famiglia italiana può essere che non ci sia mai stata: preferiscono mangiare zuppa e minestra per un anno, però restano altamente consapevoli di “dove stanno andando.”
“Si tratta di mentalità”, rammento.
“Vi è una mentalità”, conferma annuendo.
Immediato è il suo riferimento al MOF francese, “il Meilleur Ouvrier de France, riconoscimento dato agli artigiani in tutte le quante le branche dell'artigianato: dallo stilista, al conciatore di pelli, al cuoco, ecc. Vi è dunque un riconoscimento anche da parte dell'Istituzione molto più forte, dove chi prende questo MOF è alla pari della Legion d'onore, ed è un titolo ampiamente riconosciuto. Si tratta di un'implementazione di una cultura molto molto più ampia rispetto alla nostra.”
Poi riprende il filo del discorso, appuntando ancora una volta come il primo fattore che condiziona le recensioni sia appunto quello economico.
“La seconda cosa, sulla quale la cucina adesso si sta sicuramente orientando, è quella dello «star bene a tavola» non tanto in termini di «ho mangiato bene, è stato bello», ma «mi son trovato bene»”.
Afferma che un'esperienza gastronomica può essere perfetta dal punto di vista tecnico, ma può essere facilmente rovinata da una sala troppo ingessata, troppo “smart”. Dopo aver appuntato di aver mangiato nei ristoranti più complessi da prenotare, continua:
“La settimana scorsa ero al Noma a Copenaghen, un ristorante impossibile da prenotare e in cui non sai cosa succederà. Ho mangiato e ho assistito ad uno degli esempi più «Fining smart», se vogliamo definirla così. Io l'ho definita una «caserma travestita da hipster»” e ride, “perchè dietro l'approccio sicuramente smart tra cucina e sala in cui mi accolgono tutti insieme, mi salutano e danno il benvenuto.. vedi che c'è poi lì una persona che passa, il suo autore, e cerca di capire come quell'inclinazione della foglia e quell'impiattamento perfetto e maniacale sia un momento di stupore. Vedi quindi queste due dinamiche che coesistono tra loro in questo rigore da brigata francese,
però senza giacca bianca e toga alta 40cm. Molto affascinante.”.
È questo che Giacomo intende con esperienza dello “star bene a tavola”: un momento in cui non si sente condizionato, bensì a suo agio e con una sala che interagisce con lui. Ed ecco qua un secondo riferimento alla famiglia Alajmo:
“un ristorante tre stelle Michelin con una sala che interagisce, scherza e gioca con me e trova una familiarità con il cliente. Credo sia una chiave di svolta per l'esperienza sartoriale che il cliente ritiene di vivere.”
Immediato è poi il rimando a Paolo Priore, membro del comitato scientifico di ALMA.
“Al di là della sua cucina che possa piacere o non piacere dal punto di vista di come viene fatta, Priore ha portato avanti una cucina legata al concetto della convivialità. Sicuramente io non mi trovo.. ma andiamo a riprendere quello che è stato fino cinquant'anni fa: la nonna che porta in tavola la pirofila, la libertà del cliente nel poter dosare la propria porzione su una materia che è stata trattata in maniera perfetta. Sconfiniamo nella c.d. imposizione che il cuoco mi dà nella tavola, ritrovando la libertà della ciotola di parmigiano che veniva messa in mezzo alla tavola.”
Ed eccolo lì: l'ennesimo feedback positivo che ritrovo.
Per indole, non riesco a trattenermi, ed eccomi pronta ad esporgli piccola parte della mia conclusione di tesi in cui costruisco una futura situazione ipotetica proiettata nel giorno della Vigilia di Natale. Confido appunto come, al classico cenone dalla nonna, non vedremo più portate, bensì singole porzioni. Giacomo annuisce, aggiungendo come queste avranno anche un proprio impiattamento.
Immediata è anche la sua allusione al Wine pairing sul menù, ossia la tendenza ad abbinare il vino al cibo, “ormai diventata una necessità”. Continua:
“e questo Wine pairing, che ormai è restrittivo, sconfina e porta a parlare di Food pairing: vai ad abbinare un succo, un cocktail, un distillato.. senza nessun problema. Il discorso torna sempre indietro, quasi come una composizione circolare nel customizzare l'esperienza sartoriale del cliente, quasi estremizzata, certamente. Tra vent'anni la nonna farà il Wine pairing? Le porzioni saranno impiattate?”
“Saremo al ristorante Michelin?”
Suggerisco io, quasi a voler continuare il suo gioco di ipotesi.
“Saremo al ristorante Michelin?!” Ripete lui. “Io sono cresciuto su due fronti: Vigilia a casa e pranzo di Natale al ristorante. Ma è una cosa asintomatica, non si sente spesso”. Di seguito apre l'ennesima questione di grande importanza.
“Pensa al bombardamento social durante la giornata del 25 dicembre. Nella fascia dalle 15.30 alle 21 ci sono una marea di post pubblicati a sfondo gastronomico, quasi fosse un bollettino in cui tutti devono dare il loro aggiornamento della situazione. È affascinante..”. “È anche triste”, diciamo insieme. Poi prosegue: “Ma questo ce l'ha dato il social: la possibilità di farci gli affari degli altri e farci sentire da tutti quanti in mostra e importanti per dimostrare di far parte di quel sistema. L'altro giorno discutevamo con un collega tra la distinzione tra follower.. ok se hai 2000 follower ti dico “brava”, se ne hai 5000 hai costruito una setta..”.
Giacomo fa dunque un primissimo riferimento al mondo dei social come realtà in cui il cibo appare mezzo di esibizionismo e ostentazione personale, come la mia tesi vuole appunto dimostrare. Quello che definisce “dimostrare di far parte del sistema” credo sia proprio il punto chiave: mostriamo di mangiare quella cosa, in quel posto, con quella persona per far vedere qualcosa, o per sentirci inseriti in un tutto. Poi, senza interrompersi, continua a parlare di questo mondo social, ma questa volta dal punto di vista contrario: il suo.
“..Eppure i profili come strumenti per la critica enogastronomica sono oggi fondamentali.
Gli unici post che scrivo su Facebook sono legati ad un'esperienza gastronomica, è difficile che vada a scrivere nel mio status «cosa faccio oggi» o «dove mi trovo», e credo sia così da tre anni a questa parte.
E ancora di più su Instagram il mio profilo si basa solamente sull'esperienza legata ad un ristorante. Se vado a guardare le prime cose che pubblicavo erano delle «puttanate»”, dice in modo spontaneo, mantenendo una comune atmosfera di comfort.
“Ti rendi conto che non puoi farne a meno. Da un lato è uno strumento per esternare, pubblicare e far vedere dove sei andato a mangiare; dall'altro, per esempio, mi sono fatto una guida per andare a mangiare a Parigi seguendo tre persone del mondo della ristorazione che, vivendo la città, danno dei consigli per andare a colpo sicuro. Vado oltre quello che era l'uso di Internet nella ricerca e nella consultazione dell'informazione, perchè Instagram, attraverso delle immagini, riesce a fornirmi delle informazioni. È la realizzazione perfetta di un sogno.”
Il sogno a cui si riferisce è quello di una società che, sui social media, capisce se un contenuto lo attira nel giro di 3-4secondi, altrimenti lo scorre.
Ed effettivamente, se nei primi 10 secondi ci fermiamo a guardare un video, significa che è stato un successo.
“Vedi ad esempio Tasty.
Rispetto tutte le ricette, parte prima con il piatto finito e non con la panoramica degli ingredienti.
Parte dalla presentazione di qualcosa, che sia possibilmente fritto o che fili, per cui le persone dicono «Ok, devo guardarlo.»”.
Siamo manovrati da questi equilibri di cui non possiamo fare a meno, perchè per quanto io possa essere un “gastro fighetto” che va per ristoranti, senza problemi vado anche al Mc senza scandalizzarmi o stracciarmi le vesti, anzi. Mi girano più le scatole spendere venticinque euro per andare a mangiare un hamburger piuttosto che ne spenderne sei e mangiare hamburger, patatine e Coca Cola, perchè allora lì stiamo vivendo un altro fenomeno, quello della sacralità del cibo, però spalmato su qualsiasi cosa.”
Vediamo subito come dal canto suo, la considerazione dei social media sia quella di strumenti estremamente necessari ed utili sia nella propria attività di scrittore enogastronomico, sia per la possibilità di ottenere informazioni in modo chiaro e semplice.
Tuttavia, la questione prende una piega più ampia.
Da esperto comunicatore, appare quasi scontata la sua argomentazione rispetto alle strategie per attirare attenzione tramite contenuti virali. Ciò che appare meno scontato, però, è la facilità con cui si pone sullo stesso piano di qualsiasi consumatore medio.
Anzi, dopo essersi definito lui stesso un “gastro fighetto”, ammette di sentirsi parte stessa della società manovrata dai social media.
Per rendere maggiormente l'idea, riconosce inoltre di frequentare i più comuni fast food,
aggiungendo anche che preferisce questo tipo di esperienza al fenomeno della “sacralità del cibo”.
A tal proposito, continua:
“L'hamburger credo sia stato uno dei fenomeni più affascinanti di come si sia trasformato e tramutato questo mondo. Ero a Londra un mese fa e ho conosciuto Five Guys come street food: si tratta di una catena, diretto avversario di McDonald's e Burger King in termini di fast food vero e proprio. Il grande scisma del mondo dell'hamburger è stato quello che vede da una parte l'hamburger gourmet, quindi con la chianina, vegetariano, con la cipolla rossa di Tropea caramellata con l'aceto balsamico ecc., e poi quello che ha tenuto sempre botta del fast food a quattro euro: un food cost inesistente perchè è spazzatura, ma che tutti hanno continuato lo stesso a mangiare. E qui si è inserita questa realtà storica di Five Guys, che ha puntato tutto sulle patatine. Tu immagina.. entri in questo format scarno, basic, e quel giorno lì sulla lavagna c'è scritto che le patate arrivano dalla happy farm di un determinato posto e sono state coltivate dal Jim Morrison della situazione. Queste patate ogni mattina sono fresche ecc., ma l'hamburger costa sempre 6 o 7 pound. È affascinante, perchè vedi proprio questa battaglia in cui coloro se la giocano, e poi arriva chi mi racconta la storia della rava e della fava dell'hamburger che è sempre un fast food, e non si può pagare 25 euro. È come l'esasperazione della pizza. Per me una pizza gourmet è sempre una pizza”.
E io annuisco e lo interrompo proponendogli un'esperienza personale da Sirani.
Mi chiede un parere, ma poi lo lascio proseguire nel suo flusso di coscienza pieno zeppo di informazioni.
Ora è lui a fare riferimento a Franco Pepe, famoso chef di Pepe in Grani. E aggiunge:
“ La pizza gourmet è buona, ma non è pizza. Ma dal momento in cui ci son dei maestri, viene tutto estremizzato.
Si tratta di estremizzare i c.d. cibi riempitivi, ossia i cibi base della nostra tradizione”.
Come già ho anticipato, paragono Giacomo a un fiume in piena che non riesce ad arginare i propri discorsi.
Fin'ora ha infatti faticato a fermarsi dall'esprimere opinioni e pensieri in merito all'intera questione, permettendomi di ottenere una grande quantità di informazioni.
Poi sono io ad approfittare di un qualche momento di calma per porgli alcune delle domande che avevo preparato.
“Vorrei riflettessi riguardo a ciò che sta accadendo tra noi e il cibo, risorsa fondamentale per le nostre vite. Avrai notato anche tu un'estrema “moda” nei confronti di questo oggetto, intesa come mania e continua proposta di temi e argomenti a riguardo.. sbaglio?”
“È come una bolla che scoppia, in cui si mostra il lato più figo.
E questo soprattutto da quando la TV ha preso piede: da Sora Lella che nel 1995 raccontava il pollo con i peperoni fino ad adesso in cui assistiamo ad Hell's Kitchen, in cui siamo andati a raccontare il lato più figo e più assurdo della cucina, quello di questi piatti che volano ecc., perchè fa presa. Dieci anni fa non guardavamo Hell's Kitchen, ma guardavamo un programma sulla Rai che mostrava incidenti, una TV che voleva raccontare delle cose fuori dal comune... e così aveva presa.
Poi, addirittura, l'ascesa di programmi legati al cibo ci ha raccontato che nella cucina, in quell'ambiente domestico conosciuto o nel ristorante, poteva essere preso qualcuno per i capelli, poteva essere insultato, gli si poteva lanciare un piatto.. perchè ha fatto presa quello, non l'accostamento di ingredienti nel mangiare un risotto con limone e liquirizia.
Dopo sì, tutti hanno capito che si poteva mangiare limone e liquirizia insieme sul risotto, ma quello che ha colpito erano i piatti che volavano.
Si voleva vedere quello: vedere persone che alzavano una cassetta e sotto trovavano cinque ingredienti e potevano inventarne un piatto.
È una spettacolarizzazione legata al gusto della violenza.”
Continuo ad annuire,
ritrovando buona parte di ciò che dico nella mia tesi rispetto al cambio del format televisivo e alla proposta dei reality show.
“Noi abbiamo sociologicamente paura di quello che ci potrebbe far male, ma allo stesso tempo per natura umana ne siamo attratti.
Vedere una dimensione della cucina “violentata”, esasperata, estremizzata per cui non eravamo abituati, piace.
Noi eravamo abituati alla Prova del Cuoco, ma questa non l'ha filata nessuno.. era un programma del mezzogiorno e lo guardavano le casalinghe. Adesso la gente che fa l'abbonamento su Sky lo fa per vedere Masterchef.”
E ancora: “Leggevo l'altro giorno un articolo di Eleonora Cozzella, giornalista enogastronomica, in cui scrive del ruolo del concorrente:
chi sia, che piatti ha presentato... è un fenomeno di costume non del popolo, ma generale. Piace o non piace, a tutti.
Ormai ci sono reality su tutto: sulla panetteria, sul camionista, sulle torte, sto aspettando che venga fuori quello della sala. Abbiamo finito i temi. Ma arriverà quello della sala, sono sicuro sia una tendenza che arriverà.”
Con questa risposta Giacomo riesce, ancora una volta, ad anticipare una domanda che avrei voluto porgli rispetto al cambio di format televisivi. Ma inizio ad avere la sensazione che il tempo stia scorrendo velocemente e decido dunque di proseguire citandogli un pezzo della mia tesi, chiedendogli una successiva opinione a riguardo.
“«Da mero bisogno fisiologico, ricerca del gusto e convivialità, il cibo diventa anche mezzo di intrattenimento, esibizionismo e ostentazione sociale, perdendo parte della sua essenza più pura. La tesi qui riportata si propone quindi di dimostrare come il mondo gastronomico sia stato nel tempo “svuotato” della sua principale natura.»
Pensando al passato e ad oggi: da una mera condivisione famigliare, siamo passati ad intendere la convivialità del cibo come una condivisione digitale. Ritieni che questo possa far perdere un qualche valore originario al cibo e in qualche modo alla famiglia?”
“Da un lato lo allontana sicuramente, perchè se stiamo a morire a dietro all'hashtag #foodporn allora sì, ce lo siamo perso, è innegabile.
Vogliamo mangiare tutti alette glassate con tonnellate di salsa barbecue sopra, ma non sappiamo che facevamo proprio noi le salse agrodolci da 150 anni prima di importarle dagli Stati Uniti. Un po' quindi sì, l'abbiamo persa.
Dall'altro, ringraziando Dio, stiamo vivendo credo da tre anni a questa parte una rinascita della nostra identità italiana, ossia quella della trattoria.”
Questa storia mi affascina, e come per l'intera intervista, non faccio che fissare Giacomo e tenere ben aperti occhi e orecchie.
Lui, inconsapevole del mio spiccato interesse, protrae il discorso:
“Leggevo in uno degli articoli di qualche giorno fa... stiamo vivendo l'epoca della «trattonomia».
Siamo passati da quella della «bistrotnomia» ad adesso, all'era della trattonomia.
Siamo consapevoli che l'era del germoglio è finita fortunatamente: un tempo in cui mettevamo germogli di qualsiasi cosa su qualsiasi cosa,
«a cazzum» proprio. Ora siamo talmente bombardati da ingredienti strani che non ci appartengono che andare ad assaggiare cose proprie del nostro territorio e della nostra tradizione ci stupisce,
quindi è come se ci fosse un primo momento di espansione e poi un'incredibile contrazione verso l'interno, in cui la trattoria sta assumendo ruolo centrale.”
Immancabile, anche in questo caso, è l'esempio di una delle realtà gastronomiche moderne.
Il rimando va al caso di Trippa a Milano, di cui sembra riportare un parere molto positivo. E dopo una breve interruzione per motivi lavorativi, torna a definirla come una trattoria in cui, fino qualche tempo fa: “ mai ci saremmo sognati di mangiare”.
Avendo lui stesso più volte anticipato alcuni degli argomenti che avrei voluto trattare decido di riprenderli per togliermi ogni dubbio e curiosità.
“Già prima hai accennato ad una democratizzazione del giudizio.. nella tesi riporto una mia riflessione riguardo alla “concorrenza” che il settore della critica sta subendo in questo ecosistema digitale. Pensa alla figura dei foodblogger o a siti di recensione online come Trip Advisor... Da scrittore di riviste importanti, pensi mai che il settore della critica possa subire una certa concorrenza e una perdita di terreno a causa della facilità con cui gli utenti riescono ad influenzare l'opinione pubblica sui social media?”
“Perdere terreno no...
La foodblogger cos'ha fatto? Ha sdoganato questo e ci ha fatto scoprire i cupcake, e noi non abbiamo capito più niente: potevamo fare milioni di cupcake colorati con gli zuccherini sopra. Inoltre pensa al fatto che queste foodblogger hanno potuto cavalcare l'era dei telefoni cellulari, degli smartphone.. in cui tutto quanti siamo costantemente collegati. E se io sono un azienda e so che tu cominci a guadagnare terreno, comincio a foraggiarti. Però lì, allo stesso tempo, la foodblogger incomincia a perdere credibilità”.
Da qui inizio ad intravedere una certo agio in Giacomo verso un futuro che, al contrario, potrebbe quasi spaventare.
Egli appare invece ben conscio della complessità di questo mondo, da lui stesso definito “non per tutti”, e nonostante l'informalità e il suo porsi con i piedi per terra nei miei confronti, sembra molto consapevole della sua preparazione e di come anni di studi ed esperienza possano distinguere una figura come la sua da quella di semplici profili circondati da millemila follower.
“Le foodblogger e gli influencer ci saranno, ma tenderanno anche ad estinguersi. Credo siano fenomeni non permanenti.
Pensa ai social network! Il social media per eccellenza oggi è Instagram.
Facebook non dico sia in declino, ma prendiamo Twitter: a
desso sembra sia diventato il mezzo per fare i comunicati stampa, ma non è una cosa su cui passarci delle ore.
È diventato più un canale istituzionale per far passare informazioni, ma non di intrattenimento.”
In definitiva, cerco di esaurire qualsiasi mia curiosità.
Così, dedicando un'intero capitolo della mia tesi alla sezione del viaggio, mi sembra doveroso chiedergli:
“Durante i tuoi viaggi, nel corso degli anni, hai notato cambiamenti rispetto agli atteggiamenti delle persone? Per esempio, hai notato più persone che fotografano cibo al ristorante?”
È proprio in occasione di questa domanda che Giacomo svela la personale filosofia legata ai suoi itinerari del
“Prima il ristorante, poi il biglietto.” Poi chiude questa piccola parentesi, e prosegue:
“Ci fai sicuramente caso, in un'esperienza culinaria si fotografa molto il cibo. Ma lo facciamo tutti.”
A questo punto mi viene spontaneo domandare se la pratica della Food photography fosse per lui un semplice strumento lavorativo o anche un piacere personale.
“Io lo faccio sia per lavoro, sia per passione.
Tendenzialmente, al di là che io debba descriverne la scheda o meno, vado in un posto, sono curioso, ci tengo e il piatto lo fotografo.”
Poi aggiunge che è vera anche l'altra faccia della medaglia, quella di chi ritiene che il tempo di riporre il filtro giusto su una foto porta a mangiare il piatto freddo e a buttare il tempo usato per ingredienti e temperature. Ma non si tira indietro:
“Anche io ci sono dentro, non faccio il purista.
Purtroppo siamo condizionati dallo smartphone e ormai compriamo il telefono con la fotocamera più grande.
Una volta abbiamo assistito alla sdoganazione del Blackberry perchè permetteva di leggere le mail, permettendo di essere sempre in ufficio. Adesso, se vuoi lavorare nel mondo del food, un telefono con una fotocamera che spacca è necessario per non essere fuori dal gioco.”
Sono io, adesso, ad essere un fiume in piena.
E nonostante percepisco lo scorrere del tempo e un Giacomo che esaurisce prima le sue risposte rispetto all'inizio,
mi butto subito sulla domanda successiva:
“In un momento come questo di continua proposta del cibo, che cosa significherebbe per te trovare un piatto originale?”
“Per me un piatto originale è un piatto ben fatto.
Veramente.. io sono un convinto sostenitore di questa meravigliosa rinascita della trattoria,
e quindi per me un piatto originale è davvero un piatto ben fatto”.
Intervengo, chiedendogli conferma della ricerca di quel “gusto casa” con cui mi aveva rapito all'inizio della nostra chiaccherata.
“Esatto, esatto.
L'ingrediente inusuale va bene, ma poi vado a scoprire che lo posso utilizzare anche nella cucina tradizionale: è quella la cosa strana.
Mi è capitato di assaggiare un piatto di carbonara molto buono in cui era stato usato il Lapsang, una spezia che non dà nient'altro che una connotazione più marcata di affumicato.
Alla fine scopri che è una carbonara con un forte sentore di affumicato, di questo pepe che ritorna, che esalta.. però è una carbonara.
Quindi sì, un piatto ben fatto essenzialmente, non tanto un ingrediente o la provenienza.
Poi certo, l'esperienza della cucina nordica effettuata al Noma è portata ad un livello di originalità estremo..”
“Anche sulla base di quello che hai appena detto... quando sei tenuto a giudicare un piatto, che rilevanza ha l'impiattamento rispetto a fattori come gusto e qualità degli ingredienti?”
“È relativo. Mi esalto se trovo una persona che passa la giornata a disporre le foglie di acetosella in maniera armonica sul piatto.
Ho mangiato da Jour Bouchon, che è uno dei maestri dell'impiattamento esasperato, e quindi sicuramente mi esalto.
Ma fino ad un certo punto.
L'occhio sicuramente vuole essere appagato, però l'appagamento tante volte parte anche dall'aspetto e dalle aspettative.”
Qui Giacomo apre una questione molto importante, ricollegabile nell'intera sezione della mia tesi in cui parlo sia del rapporto tra arte e cucina, sia delle pratiche e tendenze che valorizzano la dimensione estetica del cibo.
“Noi spesso ragioniamo per sinestesia: mangiamo con gli occhi, però questo fa ragionare in un'ottica in cui l'occhio si sostituisce dunque al palato. Questo è uno degli errori che possono essere fatti in una degustazione.
Ricordo un aneddoto che mi raccontò Paolo Marchi, curatore di Identità golose: vi era questo piatto bellissimo, e una giornalista scrisse di un piatto molto bello come «grandissimo piatto»... e quando Marchi le chiese se lo avesse assaggiato, lei rispose di no. Allora, sai, rimani interdetto. Dunque, spesso, a discapito del palato ragioniamo con gli occhi: basta pensare al cup cake o all'esplosione del cake design in Italia.
Abbiamo cominciato a ricoprire torte con del cioccolato plastico di cui non ne sapevamo l'esistenza, era destinato ad altri usi e ci siamo appropriati di una cultura, più americana che anglosassone, in cui abbiamo voluto sacrificare la dimensione gustativa in virtù di quella estetica.”
Cerco pian piano di giungere alle conclusioni...
“Tu come immagini che si possa evolvere tutto questo in futuro, Giacomo?”
“Ah... secondo me ci stanchiamo”, risponde sospirando.
Ammetto che la risposta mi sorprende, e chiedo:
“Dunque per te non verrà portato all'estremo?”
“È già portato all'estremo. Io non sono per la gastronomia accessibile a tutti quanti.
Spero che prima o poi questa cosa rientri nei ranghi e spero anche che torneremo a mangiare la pasta Barilla senza scandalizzarci se non è trafilata o di Gragnano. Siamo cresciuti tutti quanti a pasta Barilla, ma questa esasperazione della ricerca dell'ingrediente da parte anche di chi non lo sa fare... vedo spesso queste carte, e ritorno nella mia inventiva contro le hamburgerie, in cui vengono citati ingredienti che provengono da Nord a Sud in maniera esasperata, e poi vedo che alla fine della resa lo potevano fare con un ingrediente di basso livello.
Ribadisco: venticinque euro, ok, mi avete raccontato giustamente che siete andati a ricercare quella cosa, ma se poi non sapete valorizzarla, non sapete metterla insieme in questo turbinio di ingredienti.. siamo punto a capo.
La somma di tutti i colori alla fine è sempre il bianco, per quante sfumature ci possano essere.
È cavalcare un trend, quello della gastronomia. È una moda.”
Nonostante il mio costante dispiacere nell'interromperlo, mi ricollego a quanto appena detto.
“Pensa, Giacomo: il titolo della mia tesi è proprio «Il pasto: da momento conviviale a divertissment digitale». Perchè è questo alla fine, è un vezzo..”
“Sì”, conferma, “è proprio un vezzo.
Ci schifiamo a mangiare la pasta Barilla ma l'abbiamo mangiata tutti, ci siamo cresciuti.
Sono il primo a dire che sia una pasta industriale, ma non devo demonizzarla.
Intanto mangio anche la pasta di Gragnano, la pasta Rummo, la Voiello e la Monograno Felicetti.. e sono consapevole che si tratti di produzioni artigianali. La Barilla non potrebbe fare produzioni artigianali di questo numero con il mercato che ha. Ma non mi scandalizzo nemmeno a mangiare Nutella o a mangiare al Mc, assolutamente.”
“O il cornetto...”, suggerisco.
“O il cornetto dell'Algida!” ripete, “anche il gelato ha avuto questa stessa esplosione.”
Premetto di rubargli ancora un paio di domande, e proseguo:
“Personalmente, riesci ancora a goderti un'esperienza conviviale in famiglia?”
“Sì, al massimo, anzi forse ancora di più. Io ho un passato da cuoco, quindi, se posso, faccio da mangiare io.
Ma assolutamente.. me la godo molto di più.
Vado a cercare quell'ingrediente lì e lo valorizzo. Se devo prendere una costata me la faccio io alla brace, e allora lì mi vado a cercare la macelleria, e lì poi subentra la bellezza e potrebbe essere l'unico passaggio in cui arriva la dimensione economica.
Nel momento in cui tu sai valorizzare la materia non senti più il bisogno di andare fuori. So che in quella macelleria ho pagato la carne una fucilata, che in un ristorante mi avrebbero rivenduto al triplo del costo, però pagata quella fucilata lì, la manodopera ce la metto io e mi dà più soddisfazione. Ho una valorizzazione, non vado a stravolgere. La carne la metto sulla brace, prendo un pesce e lo metto in forno..”.
“Semplicità”, suggerisco. Ma questa volta mi corregge.
“Non è semplicità, è grandissima materia prima.
Tre settimane fa ero a Bilbao e ho visitato la più importante manifattura di acciughe del Cantabrico, che nemmeno erano in produzione poiché quella settimana i pescherecci non erano usciti. Ho speso un fottio in acciughe e me le sono portate a casa. La bellezza è che a casa adesso ho un panetto di burro preso in montagna quando ero andato in Alto Adige, una latta di queste acciughe e una bottiglia di Lambrusco..”
Qua Giacomo fatica a contenere il discorso, e come se avesse avuto un flash, continua:
“Anche qui! La rinascita del vino, la moda del vino rifermentato e naturale.
Io non avevo mai bevuto Lambrusco, a me personalmente non piace per esempio.
È un prodotto di massa che è stato demonizzato dal mercato, si pensi che è il vino più esportato al mondo, perchè tendenzialmente dolce, frizzante, fresco.. Ma ho scoperto da alcune piccole realtà dei prodotti per cui non mi rendo nemmeno conto di bere del Labrusco.
Dunque mi esalto a mangiare questa acciuga con del burro e del Lambrusco. E sono a posto, sono felice.
Quindi sì, l'esperienza sicuramente famigliare è forse alla pari della ristorazione fine dining.
Però deve essere fatta, e lì allora non tollero l'errore e sono ancora più intransigente. Perchè sei nella condizione tale di comfort zone in cui non ti permetto di sbagliare, e nemmeno lo permetto a me stesso!”.
Me lo immagino, Giacomo.
Me lo immagino a tavola, alla ricerca del suo gusto buono, il gusto casa: il suo modo di fare “alla buona”,
legato da un giudizio severo e poco tollerante all'errore e all'estremo.
Poi lo immagino nelle vesti opposte, in cucina.
Prima in cerca dell'ingrediente qualitativamente perfetto, poi con un semplice grembiule, nel quale pulirsi leggermente le mani tra un taglio preciso e una cottura perfetta. Alla fine, un critico assaggio e un aggiustamento definitivo.
Istintiva, la domanda finale:
“E quindi come ti vedresti, tu, in un'ipotetica cena alla Vigilia di Natale declinata tra dieci anni?”
“Con tantissima roba.
Probabilmente ho speso di più: l'ho comprata magari girando l'Italia ed è realizzata e cucinata da me.
Ma alla fine si tratta di un bollito, una pasta ripiena. Non andiamo oltre. Non mi interessa la schiuma sul raviolo... no.
Voglio una una tagliatella con il ragù come cristo comanda?! Una tagliatella con il ragù. Fine.”
E con la parola fine si conclude l'intervista tra me e Giacomo.
E con le stesse sue parole, concludo io questo articolo.
Ciò che posso aggiungere è che da questa esperienza mi sono portata a casa tante cose:
l'onore l'accoglienza ricevuta presso ALMA, il piacere di trascrivere un'intervista frutto del mio stesso lavoro
e questa scoperta del gusto casa di cui, da quel giorno, sono sempre alla ricerca.
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